Interventi delle sorelle Gabriella e Francesca Vergine alla Cerimonia di consegna Premio Ada Magda Vergine 1° edizione 17 giugno 2022

Buon giorno a tutti a conclusione di questo incontro e prima della premiazione della tesi di laurea della dott. Perini nell’ambito delle cure palliative, è doveroso da parte nostra esprimere i pensieri e le motivazioni che ci hanno condotti fin qui.

Siamo molto contente di trovarci in questo luogo a fare una cosa per Ada da e con Ada, la consegna del premio nazionale di Tesi di Laurea in Medicina alla dottoressa Lidia Perini, e per esprimere vivo apprezzamento anche per la tesi della dottoressa Martina Cacciapuoti.

Fare una cosa con Ada, perché dico così? E’ sempre stata nostra cara abitudine quella di discutere e di stimolarci nelle riflessioni, fra noi ma anche con amici, nostra cara abitudine quella di esprimere la riconoscenza e ringraziare, ed onorare gli amici, e in questa sede, l’Hospice Cima Verde, che ci ha accolte tutte e tre negli ultimi giorni di vita di Ada, possiamo ringraziare, esprimere la riconoscenza per la Fondazione ed onorare gli amici di Ada, sapendo di farlo tutte e tre. Altro motivo di sentirci con Ada nasce dal suo impegno come tutor per i giovani medici nell’ambito della SIMG: il premio per una tesi di laurea in Medicina volto a promuovere la ricerca e la conoscenza delle problematiche delle cure palliative è senz’altro accompagnato dal suo sorriso di soddisfazione.

Condividiamo con voi alcune riflessioni che l’esperienza della malattia di nostra sorella ha comportato.

Ci sono, nella vita, degli eventi che rappresentano un varco in cui ci si addentra e oltre il quale tutto cambia. A volte ci si ritrova lì senza aver visto nulla di chiaro ed evidente: né una porta, né un arco, né altro che preavverta di un passaggio; altre volte, invece, se ne ha una consapevolezza chiara, si percepisce una soglia: avviene così per la diagnosi di una malattia grave. Cambiano molte cose oppure cambia tutto. C’è una fase, diciamo così, di lotta: ammalato, medici, infermieri, familiari ed amici sono tutti uniti per combattere la malattia o per contenerla, se la diagnosi comporta una prognosi infausta. Il cammino è più o meno lungo ma arriva il momento in cui si avvicina la morte. Ci si può fermare aspettando l’inevitabile o si può continuare a vivere e far vivere.

Oggi ci troviamo in un luogo privilegiato, qui siamo con persone il cui motto è “finché c’è vita, diamo dignità alla vita”. Non succede così dappertutto. Dove i servizi di Cure Palliative sono insufficienti, terminate le cure specialistiche si apre il vuoto e si produce uno scarto. Di fatto sembra che il paziente terminale non abbia più necessità di cura ma solo di una pietosa assistenza nel suo mondo privato col suo medico curante e le persone care o di un’attesa in un reparto ospedaliero. Insomma la medicina combattente – chiamiamola così – dichiara di non poter fare più nulla. Ma c’è una disciplina di cure complesse per i malati terminali, che ne analizza i bisogni fisici, psicologici, relazionali e spirituali, li riconosce e dà le risposte che servono. Si può dire che non c’è nulla da fare? Perché il mondo delle cure palliative è così poco conosciuto? Perché è sottovalutato? E’ lo stigma derivante dalla scotomizzazione della morte? In buona parte sì, ma è anche l’effetto dello stigma che deriva dal constatare l’impotenza della medicina, prima idealizzata come onnipotente. Lo stigma sulla fase terminale si propaga, perché, come il disonore, non resta confinato su chi lo subisce; anche il contesto, il contenitore e chi vi opera restano in quell’ombra.

La ricca realtà delle Cure Palliative è ancora troppo poco conosciuta, per la maggior parte della gente resta un mondo nascosto sotto quel pallio che nell’immaginario collettivo ricopre come un sudario anticipato lo scandalo della morte, della sconfitta.

Nessuno può togliersi da solo uno stigma, ma può farsi conoscere. La Fondazione Hospice ha da sempre tradizione di ricerca e si impegna con molte iniziative anche per raggiungere la cittadinanza promuovendo la cultura e l’informazione circa le problematiche relative alle cure palliative. Il nostro contributo per il raggiungimento di questo scopo che condividiamo con convinzione è stato quello di istituire un premio per una tesi di laurea in Medicina. L’interesse precoce per le Cure palliative, la ricerca e la conoscenza di questa disciplina di cure complesse per il malato terminale nel periodo di formazione dei medici può generare un “erosione” dello stigma e un riconoscimento del valore di questa disciplina. Se non più svalutate ma considerate nel loro valore le Cure Palliative, il cui cuore è il prendersi cura della persona ammalata, (cura che la ricerca declina su piani concreti, verificabili, trasmissibili) gioverà anche indirettamente ad altri ambiti, come modello di individuazione di bisogni che a volte restano in ombra.

Ringraziamo la Fondazione Trentino Hospice Onlus per la collaborazione fornitaci per questa iniziativa e garantitaci anche per la seconda edizione del premio Ada Magda Vergine. Riteniamo che anche l’istituzione da parte della Fondazione di un premio analogo per una tesi di laurea infermieristica come riconoscimento dell’importanza del ruolo dell’infermiere, contribuisca a stimolare l’interesse per le cure palliative. Facciamo vive congratulazioni ed auguri alla dottoressa Perini.

Gabriella Vergine


 

Come ha detto Gabri questo premio è stato voluto fortemente dalla mia famiglia fin dalla morte di Ada ma le circostanze hanno voluto che passasse un po’ di tempo, quattro anni, prima di arrivare alla meta. Scuserete quindi la mia commozione che è grande. Grazie al grande lavoro dell’Hospice Cima Verde e della dott. Rocchetti in particolare, ci siamo riusciti. Noi speriamo che sia possibile realizzare altre tappe di quello che consideriamo un percorso, con andamento annuale, di continuazione di un lavoro, quello di Ada e quello dell’Hospice, in questa direzione. Vedremo cosa saremo capaci di fare.
Innanzitutto vorrei dire che, pensando alla giornata di oggi, 17 giugno 2022, mi ha colpito accorgermi che la scelta della data, dovuta alla ricerca di una convergenza di disponibilità di molte persone, sia coincisa con quella del primo giorno di consapevolezza della malattia di Ada nel 2017: caso o provvidenza, questo dato condiziona le brevi riflessioni che vorrei condividere con voi. Infatti dal 17 giugno 2017 la nostra vita con Ada fino alla sua morte, il 7 febbraio 2018, è stata divisa tra due poli fondamentali: come aiutare Ada nella sua malattia e come aiutare Ada a continuare, per quello che poteva, a “mettere in sicurezza”, così lei diceva, i suoi pazienti. E’ stato molto difficile e per me, che sono un architetto, estranea cioè ad una formazione specifica in tal senso, ha significato scoprire tante cose.

Innanzitutto un volto di Ada. Non che non conoscessi la sua appassionata dedizione ma, appunto, per me era una dedizione di una professionista seria, secondo i dettami della educazione ricevuta e che noi abbiamo cercato di coniugare ognuna nella propria realtà. Poi ho scoperto la realtà verso cui era rivolta questa dedizione; anche qui, sapevo che era molto amata e anche apprezzata. Le mie figlie la prendevano in giro perché, dicevano che non si poteva andare a fare una passeggiata in città senza essere fermate da qualcuno che doveva parlare o salutare la dottoressa. Sapevo anche quanto si arrovellasse per alcuni casi e come cercasse di essere presente ai suoi pazienti; questo lo ha fatto fino alla fine. Nuovamente un modo di fare professione, di fare il medico, lodevole e riconosciuto ma anche attuato da molti suoi colleghi: i bravi medici.
Poi c’è stata l’esperienza di Ada, un medico che diventa paziente. Permettetemi questo inciso: Ada è stata meravigliosa perché è stata molto rispettosa dei medici che ha incontrato facendo la paziente, così come pretendeva ed insegnava che si dovesse essere, e rimanendo medico fino all’ultimo istante, nella lettura dei suoi sintomi, delle sue reazioni ai
farmaci, nelle sue riflessioni sul suo quadro clinico, nella sua volontà e competenza nel prepararci a quello che stava avvenendo.
Vorrei spiegarmi però su un punto che ritengo fondamentale. Uno ha un problema di salute e va dal medico nella speranza di essere guarito o di ricevere delle prestazioni mediche: si trova nella condizione di essere un paziente. Se il rapporto, il famoso rapporto MEDICO-PAZIENTE, non si limita alla modalità self service (prescrivimi la medicina, misurami la pressione, mandami dallo specialista – modalità che Ada non consentiva molto – oppure nella modalità (permettetemi l’espressione) “autistica”: lo opero, controllo il tuo decorso e basta), se quindi non si va dal medico come si va al supermercato o sulla luna, si instaura un rapporto di cura. Curare è più importante: non sempre si può guarire. Curare è prendersi cura, PRENDERSI A CUORE, farsi carico. Ed ecco che il rapporto diventa un cammino. Mi approprio di parole non mie, e scusate se non sciolgo la citazione, “strada facendo si instaura una comunicazione che non si argomenta, ma si diffonde prevalentemente con la vita, con la propria vita, con il proprio camminare insieme condividendo” (Fausti).
Tornando alla nostra esperienza, quando Ada si è ammalata Loretta, la dott. Rocchetti, ci ha telefonato per chiederci come volevamo regolarci, cosa avremmo voluto fare e offrendoci, con molta delicatezza, oh quanta delicatezza!!, la possibilità di prendersi cura di Ada all’hospice di Trento. Noi però avevamo bisogno ancora di fare tanta strada e io risposi ringraziando ma dicendo che volevamo averla con noi, in casa, il più possibile. Mi sosteneva l’orgoglio di aver accompagnato, insieme alle mie sorelle, tutti i nostri vecchi fino alle soglie della vita, così come avevamo visto fare dalle nostre zie-mamme nei confronti della nostra nonna materna (mamma era morta che io avevo un anno e mezzo e le zie paterne hanno cresciuto noi e curato anche la nostra nonna) e come avevamo fatto con nostro padre, morto anche lui della stessa malattia di Ada proprio 40 anni prima, e poi con le nostre zie e i miei suoceri. Insomma LA FAMIGLIA, in FAMIGLIA. E così abbiamo fatto con Ada con alcuni intermezzi ovvi. Mi riferisco al tentativo di intervento chirurgico.
Sorvolo, per misericordia, sull’esperienze negative che Ada ha affrontato con molta magnanimità, per rappresentarvi un’esperienza che certamente è di molti. Quando è stato impossibile tenerla a casa Ada è stata ricoverata. La abbiamo portata all’ospedale di Mirano dove è stata curata con molta competenza e amore.
Uso volutamente questo termine, che di solito si usa per rapporti intimi e sembra mal coniugarsi con ambiti istituzionali. Ma cosa c’è se non amore? per il proprio lavoro, per i propri pazienti, per quello in cui si crede. Quindi lasciatemi usare questa parola: AMORE. Noi abbiamo scritto un encomio; era doveroso. Abbiamo l’occasione di rinnovarlo oggi al dott. Azzarello, primario dell’unità oncologica di Mirano, qui presente e che fa parte della giuria del premio.
E poi ci sono stati gli ultimi giorni.
Mio marito, e gliene sono infinitamente grata, facendo mirabile uso di una sua insospettabile prerogativa, mi ha illuminata suggerendoci di portarla a Trento. Riportarla a Trento dovrei dire. Per Ada è stata una gioia immensa; per noi una inaspettata accoglienza in un mare di affetto. Sette giorni di ininterrotte visite dal mattino presto fino a tarda sera. Anche a Mira Ada ha ricevuto continue visite, tantissima gente é venuta da molte parti, ma qui a Trento amici e pazienti hanno accettato di fare la fila per salutarla. In continuazione ci siamo sentite dire, anche negli interminabili giorni di sosta in obitorio, anche dopo il funerale: ora come farò senza Ada? Ora come farò senza la dottoressa?
Lei mi diceva… lei mi ha fatto…. Lei …
Ma allora, questo é il punto, siamo qui a ricordare, a compiangere a celebrare? No, il motivo di questo incontro è un altro: noi siamo qui, io credo, a riconoscerci tutti, ognuno con la sua esperienza personale o professionale in una scelta di vita e di relazione, che non si esaurisce nel mestiere di medico, siamo qui a dire che Ada aveva scelto la strada giusta. Ada è stata fermata, ma la strada la precedeva e continua e come su ogni buon cammino in tanti si va. Ma è importante riconoscersi, affermarlo, potenziare il cammino, crederci e condividerlo. E’ necessario coniugare tutti gli aspetti scientifici, professionali, umani e soprattutto trasmetterli e promuovere la formazione.
Ho lasciato in chiusura i ringraziamenti perché non fossero considerati una forma di inizio formale di discorso.
Il GRAZIE è un atto dovuto, non è una forma di educazione o una formalità. E quindi grazie Ada, grazie dott. Azzarello, grazie Loretta, grazie Hospice, grazie dott. Perini. Grazie a tutti voi.

Francesca Vergine

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