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Registrazione incontro VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ IN CURE PALLIATIVE. ESPERIENZE A CONFRONTO

Si è svolto il giorno 3 dicembre l’incontro il consegno VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ IN CURE PALLIATIVE. ESPERIENZE A CONFRONTO.

E’ stata una giornata ricca di informazioni e confronti, di cui vi lasciamo la registrazione della seconda parte  “Cure palliative e qualità dell’assistenza. Incontro confronto con caregiver e popolazione” al seguente link del nostro canale You Tube https://youtu.be/zeW6us9cOJE

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BUONE NOTIZIE “La bellezza che salva”

BUONE NOTIZIE!
Nell’inserto BuoneNotizie del Corriere della Sera si parla del progetto di CSV Trentino – Non Profit Network a cui abbiamo partecipato come Fondazione con la testimonianza agli studenti coinvolti del direttore di Casa Hospice Cima Verde Stefano Bertoldi e della volontaria di Associazione Amici Hospice Trentino Camilla Endrici. Le creazioni degli studenti sono destinate anche a Casa Hospice Cima Verde.
Di seguito i link agli articoli apparsi sull’inserto e sul quotidiano L’Adige.
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PREMIO ADA MAGDA VERGINE- 1° Edizione

La Fondazione Hospice Trentino onlus, con il patrocinio dell’Ordine dei Medici chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Trento e della Società Italiana Cure Palliative, bandisce un concorso per un premio annuale di laurea di € 1.000 reso possibile dal contributo della famiglia Vergine per onorare la memoria della dott.ssa Ada Magda Vergine già apprezzato medico di famiglia a Trento. L’obiettivo del premio è stimolare la ricerca, promuovere la cultura, la riflessione e gli studi sulle problematiche relative alle cure palliative per le persone malate che ne hanno diritto ai sensi della legge 38/2010. L’argomento della tesi deve essere attinente alle terapie del dolore e alla presa in carico attiva e totale dei problemi fisici, psicologici, relazionali, sociali e spirituali della persona malata e il sostegno al suo nucleo familiare.

Il bando è aperto ai laureati di tutti gli Atenei d’Italia, le domande dovranno pervenire entro l’8 ottobre 2021 all’indirizzo fondazionehospicetn@pcert.it.

Bando Premio Ada Magda Vergine

Domanda partecipazione Premio Ada Magda Vergine

Per informazioni:

Fondazione Hospice Trentino Onlus: info@fondazionehospicetn.it

Famiglia Vergine: francesca.vergine@hotmail.it

 

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Il sorriso che rimane

La mostra nasce dall’idea di Davide Rossi, OSS di Casa Hospice Cima Verde, che durante il periodo della pandemia ha coinvolto i colleghi e tutte le persone che operano nella struttura in questo progetto.

Come ti è venuta questa idea?

La primavera scorsa è stato un periodo difficile per tutti, ci siamo sentiti più che spaventati, atterriti, frastornati. Ci siamo sentiti privati di una parte fondamentale della nostra umanità: il volto dell’altro, ciò in cui ritroviamo noi stessi e ci riconosciamo simili, riuscendo così a creare un filo diretto con le emozioni e vissuti altrui. Non poter più vedere il volto della persona con cui sto parlando o che più semplicemente incrocio sul giroscale o a scuola è tuttora per me una situazione talmente anomala da sembrarmi inverosimile. Quei mesi per me sono stati anche un periodo di riflessione e confronto, in famiglia come sul lavoro. Mi chiedevo quali effetti potesse avere su di noi una comunicazione così mutilata, l’isolamento, il distanziamento, il forte limite alla libertà personale, la mancanza di prospettiva e tutto il resto. Non sono riuscito, ovviamente, a trovare risposte certe ma ciò che ne è derivato è stato un forte desiderio di esprimere un significato, di andare oltre la mascherina e di provare a raccontare ciò che continuava ad esserci, cosa ancora si poteva vedere e in che cosa ci si poteva riconoscere.

Quale è il significato della scelta delle immagini in bianco e nero e a colori ?

Dalla combinazione di tre grandi passioni che nutro, la fotografia, la storia e l’essere umano inteso come persona, è nato un primo progetto fotografico che ho intitolato “volti pandemici”. Attraverso una serie di ritratti in bianco e nero di persone con il volto coperto dalla mascherina la mia intenzione è stata quella di cercare di dimostrare che le mascherine, pur essendo un’enorme barriera, non riescono a oscurare completamente la nostra espressività: ciò come metafora di una umanità che continua a sopravvivere sotto la paura di questi mesi e si prepara a riesplodere. Inoltre, da appassionato di storia, sento io stesso la necessità di cogliere il segno del tempo e lasciarne una traccia, sperando che fra molti anni possa essere ancora testimonianza del periodo che stiamo vivendo e di come le persone di oggi vi abbiano fatto fronte. Ovviamente per la contingenza del momento ho dovuto chiedere la disponibilità a farsi fotografare ai miei colleghi che, in quel momento, erano la gran parte delle persone che riuscivo ancora a vedere. L’idea di creare una piccola esposizione che raccontasse qualcosa del vissuto degli operatori è stata fortemente sostenuta da Gessica, la nostra coordinatrice infermieristica. Così è nato il progetto tutto interno a Casa Hospice Cima Verde, “Il sorriso che rimane”, con cui ho inteso dare espressione sia al forte impatto che la pandemia ha avuto sul nostro lavoro nel rapporto con il paziente e i familiari, sia al modo in cui noi operatori abbiamo cercato di dare argine ai cambiamenti che ne sono derivati, per mantenere il più possibile un clima di accoglienza ed empatia. Da qui l’idea di inserire tra i ritratti in bianco e nero i sorrisi a colori, dove il colore sta a indicare proprio quel senso di accoglienza e quella sensibilità verso il sentire dell’altro che ci ha sempre contraddistinti e che, come il sorriso, continua a vivere e mostrarsi, nonostante ed oltre la mascherina.

Come è cambiato il tuo lavoro e il rapporto con i pazienti?

Prima di entrare in una stanza o di parlare con un ospite cerco sempre di essere consapevole del fatto che indossare una mascherina sottolinei ancora di più la nostra distanza, allargando notevolmente l’asimmetria tra malato ed operatore e posizionando tra me e lui un’ulteriore barriera che ha da un lato chi, in un certo senso, è nudo nel suo bisogno e dall’altro chi è totalmente tutelato dal suo ruolo professionale. Per questo motivo l’uso della mascherina ha avuto, non solo simbolicamente, un grande impatto nel rapporto di noi operatori con i pazienti e i familiari. Questa percezione mi ha dato lo stimolo per provare a colmare questa disuguaglianza nel tentativo di mantenere quell’atmosfera di empatia e vicinanza che caratterizza lo stare in hospice. Così ho cercato di andare oltre la mascherina avvicinandomi ancora di più all’animo di chi avevo di fronte, attraverso una maggiore propensione all’ascolto e la massima attenzione ai bisogni che mi venivano espressi. Con lo stesso scopo mi sono prestato di più anche come persona, non solo come professionista, mostrando qualcosa di più anche di me come Davide, come padre, affinché sotto la mascherina si potesse immaginare quel sorriso che non ha mai smesso di accompagnare il mio lavoro. Le misure che si sono dovute prendere per contenere la pandemia hanno avuto conseguenze tutt’altro che banali sul modo in cui eravamo abituati a lavorare e, nei mesi del lockdown, quando anche Cima Verde ha dovuto chiudere le porte alle visite di parenti e amici, si è arrivati quasi a snaturare l’essenza stessa dell’hospice, inteso come luogo di ospitalità e di relazione. In quel periodo è venuto meno persino il fondamentale contributo dei volontari, così come quello delle attività terapeutiche con la musica e gli animali. Ciononostante, anche in quei terribili mesi, si è cercato in tutti modi di assicurare quei principi di qualità e dignità del vivere e morire per cui era nato l’hospice. Ciò ha richiesto sia a livello di direzione che a noi operatori maggiore impegno e un notevole sforzo di adattamento e di ricerca di soluzioni, nel tentativo di arginare quel senso di alienazione e abbandono a cui stavano andando in contro i nostri ospiti in una situazione di malattia e isolamento.

Come hai vissuto tu come OSS il periodo di pandemia?

Dal punto di vista personale credo sia stato professionalmente ed emotivamente uno dei momenti più difficili della mia vita. Ho dovuto ricalibrare il mio ruolo di operatore, non ero più figura di supporto in una relazione tra paziente e familiare, bensì mi ritrovavo ora, con i miei colleghi, ad affrontare in prima persona quella relazione e a farmi carico di sofferenze, aspettative, paure e speranze di persone che conoscevo appena e che si trovavano ad affrontare la propria malattia senza avere accanto i propri cari. In tale situazione mi sembrava già molto dare loro la possibilità di intravvedersi al di là di un vetro appena aperto almeno per un’ora al giorno. A raccontarlo oggi ancora faccio fatica a crederci ed è per questo che insistiamo molto con i familiari e i visitatori affinché vengano rispettate quelle regole come il numero massimo di persone ammesse e l’uso della mascherina. Con grande disagio mi trovo spesso a dover negare alcune richieste dei familiari che probabilmente avanzerei io stesso se fossi al loro posto e che comunque in un a situazione normale sarebbero del tutto legittime; tuttavia credo sia da scongiurare ad ogni costo la possibilità di una nuova chiusura. Così durante quest’anno spesso mi è capitato di fermarmi a riflettere con i colleghi anche sul ruolo di noi operatori riguardo alla necessità di rimanere risoluti nel far rispettare regole e disposizioni anti-covid, nonostante la freddezza quasi disumana delle stesse. Ho cercato, come tutti, di mantenere il più possibile in equilibrio le due cose. L’emergenza della situazione ci ha imposto scelte difficili ma abbiamo sempre cercato di compierle con professionalità e cuore, tenendo conto del contesto in cui lavoriamo e senza dimenticare l’obiettivo di maggior qualità di vita e di morte possibile per i nostri ospiti e per i loro familiari. Non so se ci siamo sempre riusciti, non sta a me giudicarlo, certo è che abbiamo dato più di quello che avrei pensato possibile, sia come energie morali che fisiche. Ci siamo sostenuti a vicenda nei momenti difficili e attraverso il confronto, abbiamo cercato man mano di crescere in questo nuovo contesto in cui la pandemia ci ha costretto a lavorare, più complesso e faticoso sia dal punto di vista emotivo che professionale.

 

Fondazione Hospice Trentino Onlus ringrazia Davide Rossi per la proposta e l’intera realizzazione del progetto.

Ultima visione. Brevi riflessioni sulla fine di un viaggio

Anche quest’anno il Comune di Trento Servizi Funerari in collaborazione con Fondazione Hospice Trentino Onlus, Gruppo Spes, Associazione AMA e Cinema Astra, propone una breve rassegna cinematografica sul tema del fine vita, dell’accompagnamento e dell’elaborazione del lutto.

Ad ogni proiezione seguirà un breve  momento di condivisione e riflessione.

La rassegna avrà luogo al Cinema Astra, Corso Buonarotti 16 – Trento, con due proiezioni per ciascun film: ore 18,00 e ore 20,00. Ingresso € 7 o abbonamento.

21 ottobre: AL DIO IGNOTO di Rodolfo Bisatti Italia 2020 – 125 minuti

28 ottobre: UNA BUGIA BUONA di Lulu Wang – Usa, Cina 2019 – 98 minuti

4 novembre: IL MEGLIO DEVE ANCORA VENIRE di Alexandre de La Patelliere – Francia 2019 – 117 minuti

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Il Mantello di San Martino nella Cineteca del CAI

Nel 2018 Fondazione Hospice Trentino Onlus, in collaborazione con altre realtà territoriali, ha partecipato ad un progetto dell’Associazione Montagna Solidale, accompagnando una paziente ospite della Casa Hospice Cima Verde in un trekking in alta montagna. L’ esperienza di Luisa e dei suoi compagni di viaggio è al centro dell’intenso cortometraggio selezionato al Film Festival della montagna 2018 e ora scelto dal CAI per la propria Cineteca.

Ora disponibile per il prestito al seguente link https://www.cai.it/titolo/il-mantello-di-san-martino/

Sinossi 

Luisa decide di lasciare per qualche giorno la Casa Hospice “Cima Verde” per condividere un viaggio tra le sue montagne. Non più come in passato con la forza delle sue gambe, ma con l’aiuto del gruppo Stella Polare formato da utenti, familiari, operatori e volontari del centro di salute mentale di Trento. Una sfida alla fatica, alla paura, allo stigma e al pregiudizio.

Film documentario / Montagnaterapia
Regia e fotografia: Andrea Bertoldi
Produzione: Fondazione Hospice Trentino Onlus

Italia, 2018
19 minuti

AL DIO IGNOTO un film di Rodolfo Bisatti

Una madre, Lucia, vive sola con il figlio Gabriel di 17 anni. Il marito è “fuggito” sette anni prima, in seguito alla morte per leucemia della primogenita Anna. Lucia tenta di elaborare il lutto: affronta il dolore lavorando come infermiera in un Hospice, a contatto con persone che hanno malattie non più guaribili.

In Hospice Lucia incontra degli ospiti che si riveleranno dei Maestri; in particolare il professor Giulio Redetti che, in modo dissacratorio e provocatorio, narrando di sé e delle proprie peripezie, le indicherà la strada per la liberazione dall’angoscia.

Il figlio Gabriel metabolizza la perdita della sorella, adottando uno stile di vita temerario per provare a se stesso e a sua madre, che vivere veramente comprende il rischio consapevole della morte.

Le scelte dell’anziano professor Redetti e del figlio “ribelle” Gabriel, si intrecciano nella coscienza di Lucia, generando in lei una nuova consapevolezza.

 

Al dio ignoto

Sceneggiatura: Rodolfo Bisatti, Maurizio Pasetti, Laura Pellicciari

Musiche: Sainkho Namtchylak

 

Riferimenti:

Rodolfo Bisatti      secretary@kineofilm.it 3398646377

 Laura Pellicciari  president@kineofilm.it  3347862782

CONCERTO DI BENEFICENZA A SOSTEGNO ATTIVITA’ DI FONDAZIONE HOSPICE

In occasione dei 30 anni di attività della società Sidera (www.sidera.it), che opera nel settore ICT (Information and Communication Technologies), organizza una serata musicale il cui ricavato andrà a sostegno della nostra Fondazione e dell’Associazione Il Papavero/Der Mohn.

L’appuntamento è per il giorno 30 gennaio alle ore 20.30 al PalaRotari di Mezzocorona con il concerto del gruppo I Like Floyd – A Pink Floyd Story dedicato appunto al sound dei Pink Floyd. Costo del biglietto € 18, vendita biglietti www.primiallaprima.it .

Sarà l’occasione per gustare ottima musicale e, nello stesso tempo, sostenere gli obiettivi della serata.

Vi chiediamo di aiutarci a diffondere il più possibile l’iniziativa e vi aspettiamo al PalaRotari il 30 gennaio.

UN GRAZIE SPECIALE ALL’HOSPICE CIMA VERDE

Pubblichiamo di seguito una lettera apparsa sul quotidiano L’Adige nel mese di agosto.

Ciao Cesare. Sei arrivato all’Hospice Cima Verde il 24 aprile 2019, dopo tre mesi trascorsi al Santa Chiara. Eri consapevole di essere approdato in una struttura di eccellenza, pur intuendo che sarebbe stata la tua ultima dimora.

Ciò nonostante, appena arrivato, hai capito che questo era il luogo ideale. Ti sei sentito subito come a casa. Ti dicevo: questa ora è la nostra casa. Così è stato. Ti sono sempre stata vicino, giorno e notte. Dormivo accanto a te, anche se qualche volta mi suggerivi di tornare a casa per riposare nel nostro letto più comodo. L’ho fatto poche volte perché la casa, senza te, era vuota. Abbiamo vissuto insieme in una bella famiglia. Sei stato coccolato e vezzeggiato da tutto lo staff. Tutti, nessuno escluso, avevano un sorriso e una buona parola per te.

Non hai mai provato dolore fisico e al primo sentore di ciò, il rischio veniva immediatamente scongiurato. Era fondamentale il controllo del dolore, unitamente all’attenzione ai problemi psicologici e sociali. Quei giorni di calma e serenità sembrava dovessero durare in eterno. Abbiamo vegliato il tuo sonno leggero. Hai potuto trascorrere ore di svago guardando alla tv i tuoi programmi di sport preferiti. Hai apprezzato tantissimo il bagno con idro massaggio che gradivi a cadenza settimanale. Ricordo che la presidente, appena arrivato ti disse: qualunque cosa serva, non esiti a chiedere, se possiamo, esaudiamo tutti i desideri.

Io e, per mio tramite Cesare, vogliamo esprimere tutti sentimenti di gratitudine per tutto quello che l’Hospice Cima verde riesce a fare per far vivere i pazienti il più serenamente possibile. Continuate così, siete una realtà unica. Grazie per tutto quello che avete fatto e continuate a fare. Con infinita stima e riconoscenza.

Luisa Bassano

QUALE SPERANZA NELL’AMBITO DELLE CURE PALLIATIVE?

Di seguito l’articolo “Quale speranza nell’ambito delle cure palliative?  Luca Ottolini *.  Articolo nel dossier “Condividere la speranza”, n. 33/2016 . Rivista per le Medical Humanities rMH, Ed, Casagrande Bellinzona

Il contesto
Storicamente nate in Inghilterra negli anni Sessanta del ’900, le cure palliative hanno subito nel corso dei decenni un’evoluzione parallela e progressiva all’affinarsi della tecnologia sanitaria e alla parcellizzazione medica. Tale evoluzione si è determinata sia nell’ambito di applicazione che nella tempistica. Di fatto, inizialmente dedicate sostanzialmente a malati oncologici «terminali», esse hanno acquisito vieppiù rilevanza in ogni ambito medico-chirugico per un’applicazione sempre più precoce. Non solo quindi una medicina del morente, ma una «medicina dell’uomo, che è vivente sino alla morte». In un certo senso, le cure palliative hanno rappresentato l’allargamento della prospettiva di cura con un passaggio del focus dalla malattia alla persona: in sostanza, la riconquista dell’«umano» rispetto al «dettaglio». Ciò ha comportato un viraggio degli obiettivi di cura dal semplice cercare di controllare una malattia al ben più complesso cercare di permettere la realizzazione degli obiettivi della persona malata. Ma come si può dunque, almeno concettualmente, conciliare una situazione di terminalità clinica con la nozione di speranza? Sintetizzando la definizione dell’OMS, le cure palliative sono «un approccio di cura finalizzato a migliorare la qualità di vita di malati affetti da malattia in fase evolutiva-terminale…». Sempre sintetizzando, per l’OMS la qualità di vita è strettamente dipendente dalla «percezione che la persona ha rispetto al suo ruolo… in rapporto ai propri obiettivi e desideri…». Ne consegue che la qualità di vita sia legata al benessere psico-fisico, rispetto agli obiettivi e desideri della persona, ossia alle sue speranze. Quindi possiamo affermare che chi cura una persona in fase avanzata o terminale di malattia, non solo dovrebbe sostenerne la speranza, ma fare proprio dell’oggetto della stessa il principale obiettivo di cura. Di fatto, chi lavora in tale contesto, ha il grande privilegio di intercettare ed entrare in contatto intimo con le persone in uno dei momenti più significativi della loro vita. Da ciò ne consegue la responsabilità non di salvare loro la vita, bensì di aiutarle a ritrovarne il senso, individuando obiettivi prioritari e alimentandone le speranze.
Per questo, il setting di cure palliative comporta la presa in carico del malato affetto da malattia evolutiva, nella completezza degli aspetti biologici, psicologici, sociali e spirituali. Una modalità di cura che necessita per definizione un lavoro d’équipe nell’interdisciplinarità e interprofessionalità.

Le domande
Fin qui la semplicità e perfezione delle definizioni e della teoria, ma cosa succede nella vita reale, nella pratica del quotidiano? Chi di noi di fronte all’ineluttabile s’immaginerebbe di poter conservare ancora una qualsiasi speranza? Quando persino il vaso di Pandora dovesse sembrare completamente vuoto e anche il medico, in cui si aveva riposto fiducia, dovesse sentenziare che «non c’è più speranza». Come può essere possibile ignorare un elefante rosa in una stanza? Quale speranza può esservi di fronte all’evidenza dell’imminenza della morte, quando anche i familiari del malato riescono solo dietro la porta socchiusa a sussurrare «la speranza è l’ultima a morire»? In sostanza: quale può essere lo spazio per la speranza in un contesto di fine vita e in particolare di cure palliative?

Una questione di prospettiva
Certo, se la prospettiva della speranza fosse unicamente quella «oggettiva», «realistica», rivolta alla cura e guarigione della malattia e al prolungamento della vita, non potrebbe esservi nessuno spazio: per definizione, l’abbiamo specificato, le cure palliative non sono deputate a questo. Purtroppo, di fatto è da questo punto di vista che si pone la maggioranza dei curanti e una parte dei familiari quando considera la possibile speranza in questa fase della malattia e della vita1. In questa ottica, qualsiasi manifestazione di ottimismo o speranza da parte del malato viene conseguentemente considerata con significato solo negativo, inteso come «negazione o rimozione» della realtà, e il sostegno della stessa andrebbe rifiutato dal curante come dai familiari, se non a costo di sostenere vane speranze con le famose «bugie a fin di bene».
Da queste considerazioni, apparentemente banali, derivano conseguenze tutt’altro che indolori per l’assistito.
– La prima è l’irrispettoso imbarazzo, con cui ci si costringe a ignorare l’evidenza di fronte a quello che consideriamo un «malato terminale».
– La seconda deriva dal fatto che la percezione (pre-concetta) di un dato ne influenza la comunicazione. Così, se la percezione dei sanitari o dei familiari rispetto alla speranza sarà esclusivamente orientata verso una prospettiva «realistica», sarà improbabile riscontrare una comunicazione aperta, sincera, empatica. Da questa prospettiva, la speranza ha senso solo se orientata alla realtà e verità della condizione, quindi ogni informazione onesta sulla malattia, il parlare di prognosi, di direttive anticipate o di cure palliative non può che distruggerla.
– Da ciò deriva la terza e ben più ampia conseguenza, ben più grave della spesso banalizzata «bugia a fin di bene», o della tristissima «congiura del silenzio» con cui spesso si indica l’impudico «negare per non togliere la speranza». Ciò comporta di fatto il negare a quella persona il diritto decisionale (di autonomia) per una parte (irripetibile) della propria vita.
Evidentemente, se le cose fossero unicamente così, se la prospettiva di visione fosse solo questa, non ci sarebbero alternative: la speranza in contesti di malattie inguaribili non potrebbe esserci, a meno di non essere solo «parzialmente sinceri». Fortunatamente è ampiamente dimostrato nella pratica, che anche di fronte all’evidenza dell’ineluttabile, la persona sa ricavare spazio per la speranza. Non irrazionale illusione, ma capacità di «ri-vedere», in base alla situazione, la propria posizione rispetto a nuove prospettive e obiettivi, trovandovi un senso e confidandovi valore e fiducia. Ce lo ricordano in modo forte le testimonianze lasciateci da chi è sopravvissuto all’Olocausto nazista, che ha dichiarato come «la speranza sia stata basilare per sopravvivere »2. Ce lo ricordano i pazienti che come curanti intercettiamo e vorrebbero essere trattati ancora da persone prima che da «morenti». Dunque, accanto alla prospettiva «realistica» della speranza, ne esiste una seconda, cosiddetta «funzionale», autentico meccanismo di coping che orienta il paziente a concentrarsi su obiettivi concreti e realizzabili, per lo più di qualità di vita. È stata infine descritta una terza prospettiva di speranza, definita «narrativa», legata in sostanza alla propria storia e valori, che coinvolge i piani più profondi della persona, «spirituali», e va oltre la malattia e la vita3.

 La prospettiva della persona in fase avanzata di malattia
In fase avanzata di malattia, oggetto e prospettiva della speranza dunque cambiano. Se chi è affetto da una qualsiasi malattia a prognosi favorevole tende a finalizzare la propria speranza verso obiettivi generali e per lo più oggettivi-realistici (guarigione, sopravvivenza), con l’aggravarsi della situazione questi diventano progressivamente più definiti, specifici e di più profonda natura. Raramente resta al centro il controllo della malattia, per lo più lo diventa il controllo dei sintomi, il riuscire a concludere qualcosa prima di morire, il vivere serenamente quanto è concesso, sino al poter morire in pace. In presenza di una malattia a prognosi infausta, dunque, la speranza non è uno stato, ma un divenire. Nella pratica è fondamentale comprendere come tale evoluzione non sia spontanea, né inizi automaticamente una volta comunicata la diagnosi o la prognosi, ma necessiti di fattori favorenti, come pure possa incontrare eventi sfavorevoli. Su questo processo adattativo interagiscono fattori biologici-fisici, sociali-affettivi, cognitivi-culturali e spirituali- intimi. Il mantenimento di speranze orientate esclusivamente su oggetti riguardanti le cure della malattia raramente è funzionale e per lo più comporta gravi sofferenze. Il mantenimento del controllo del proprio corpo malato (sintomi), del proprio ruolo sociale (relazioni) e della propria capacità cognitiva-speculativa (spiritualità) porta a riconoscere la situazione, darle un senso e trovare la propria collocazione rispetto a obiettivi coerenti. Ciò in sostanza permette la matura e valida evoluzione della speranza.

Ricadute pratiche
Dal punto di vista pratico, le tre prospettive della speranza raramente sono così nette, univoche, né sono esclusive. Possono coesistere, complementari più che alternative o in opposizione, così come mutare ed evolversi. È evidente la necessità che il clinico, e chiunque si rapporti col malato, non solo conosca, ma sappia interagire con tutte e tre le prospettive, in modo da poter essere concretamente d’aiuto all’assistito. Nel caso specifico della fase palliativa della malattia, è necessario che chiunque si occupi del malato conosca i fattori favorenti l’evoluzione positiva o negativa della speranza, in modo da poter intervenire in modo appropriato4.
Innanzitutto, vi sono fattori strettamente legati al paziente stesso. È dimostrato che coraggio, umorismo e ottimismo facilitino l’adattamento e quindi favoriscano l’evoluzione verso obiettivi di speranza congruenti e validi. È altresì provato che, all’opposto, precedenti esperienze negative come pregressi o incipienti episodi depressivi la limitino. Allo stesso modo, la corretta informazione e conoscenza della propria situazione porta alla percezione di poterla controllare, trovandovi un senso rapportato al proprio passato, mentre informazioni non coerenti comportano la sensazione di perdita del controllo e assenza di obiettivi.
Altri fattori sono correlati al contesto sociale. La valorizzazione della persona, il mantenimento del proprio ruolo nel consesso umano, la presenza di relazioni significative, come banalmente la possibilità per il malato di poter vivere il più possibile nel proprio contesto domestico, aiutano un positivo mantenimento e un’evoluzione della speranza. In senso opposto, ricevere messaggi contrastanti con ciò che il malato recepisce dal proprio corpo, come non poter parlare apertamente delle proprie condizioni, del proprio futuro o della morte, impediscono qualsiasi speranza evoluta e sostenibile.
Vi sono infine, ma non certo marginali, fattori legati ai curanti. Se, da un lato, onestà e chiarezza nell’informazione sono fattori apprezzati e positivi, una comunicazione incongrua, oppure brutale e solo negativa può togliere ogni speranza. Così il rispetto della persona, che si manifesta nella sincerità della relazione, come nell’attenzione al controllo dei sintomi, è decisivo nel sostenere la speranza. Al contrario, sarà improbabile mantenere una qualsiasi speranza, con la s-valorizzazione della persona che si manifesta nell’abbandono, nell’accanimento come nella futilità terapeutica, nell’approccio sintomatico inefficace o nella comunicazione irrealistica e non coerente.

Speranza di guarire?

È un dato innegabile che anche nella fase terminale della vita si possa riscontrare la persistenza di una speranza «non evoluta», ossia solo fisica-obiettiva, focalizzata ancora su obiettivi evidentemente irrealistici, come la guarigione completa o improbabili recuperi funzionali. Il mantenimento di speranze «irrazionali» e apparentemente non funzionali, in realtà non va considerato necessariamente negativamente, ma sempre compreso e in alcune circostanze rispettato. Nel caso, va innanzitutto distinto se ciò derivi da un’informazione, una comprensione ed elaborazione corrette o meno. L’informazione, in ogni caso, ma a maggior ragione in questi ambiti, deve comunque essere data correttamente, contemperando nell’empatia, onestà e sensibilità. Va tenuto presente che onestà e verità sono più spesso apprezzate che temute e che dell’ossequio all’autonomia della persona fa parte il rispetto del diritto di sapere, così come di non sapere. Se la persona non è stata informata in modo corretto, pur manifestando il desiderio di conoscere la propria condizione, è nostro dovere avviare un processo virtuoso di coerente consapevolezza. Tale processo inizia con la semplice apertura e disponibilità al colloquio e può (o meno) progredire sino alla completa informazione-consapevolezza. Tuttavia, dovremmo sempre essere disposti ad arrestarci non appena il paziente manifesti volontà/desideri diversi. Se, al contrario, siamo certi che, nonostante il processo informativo sia stato completo ed efficace, la persona mantiene speranze irrealistiche, evidentemente ci troviamo di fronte a meccanismi di difesa inconsci (negazione-rimozione). Tali difese vanno rispettate, in quanto tutt’altro che disfunzionali. Comunque sia, compresa la natura di speranze irrealistiche, ne vanno considerate, previste e corrette le conseguenze. Tra queste, il tendere a nascondere sintomi, peggiorando la qualità di vita, come il negare la progressione di malattia, esponendo la persona a trattamenti aggressivi-futili e ritardando trattamenti palliativi5. A ciò consegue, in sostanza, che il paziente non possa vivere pienamente, by-passando di fatto un periodo importante della propria esistenza.

Conclusioni
Chiunque si occupi di assistere malati affetti da malattie cronico-evolutive non suscettibili di guarigione ha il grande privilegio di confrontarsi con persone che stanno vivendo uno dei periodi più significativi della propria esistenza. È nostro compito, come curanti, rivolgerci in primo luogo alla persona che ci si affida, rilevandone bisogni e ri-definendoli assieme, identificandone gli obiettivi, attivandoci per raggiungerli e sostenendone al massimo la speranza. Tra i bisogni della persona, anche se affetta da malattia in fase terminale, c’è la speranza stessa. Pertanto la speranza, in queste condizioni, è da un lato obiettivo di cura, così come, dall’altro, importante alleato-componente della stessa e va rispettata anche se divergente dalla nostra prospettiva. In quanto curanti, è nostro primo mandato curare al meglio la sofferenza (fisica-psichica-morale), in quanto toglie il senso al vivere e in conseguenza qualsiasi speranza. Tale cura va ben oltre il semplice atto sanitario o assistenziale. È importante essere consapevoli che le nostre parole (informazione- comunicazione), il nostro essere (conoscenza-percezione) e il nostro agire (cura) fanno la differenza, con conseguenze dirette affinché le persone che ci si affidano possano o meno vivere, sino alla morte.

* Dottor Luca Ottolini: Capo clinica Servizio cure palliative presso IOSI – Bellinzona